Può la Sardegna sostenere il fabbisogno stagionale dei suoi prodotti tipici? La risposta è no, è il motivo è proprio che è stagionale.
Facciamo due Conti e un Granduca, e della Sardegna il Granducato delle Vacanze dove vivono in modo stanziale 1,5 milioni circa di sudditi. Per sfamarli tutti, l’isola produce, in vecchie misure, 200.000 stai di grano, 550.000 misure d’olio d’oliva, 33.000 acri di vigne – di cui 10.000 di Cannonau – che rendono 20.000.000 di galloni di vino. Stesso discorso per la bottarga, il miele, le mandorle e le noci dei torroni, la ricotta che riempie i ravioli e infine il tanto ambito porceddu, gusto e icona di una vita a contatto con la natura come nelle vecchie pubblicità di Marlboro Country.
Arriva la stagione calda e, nonostante i prezzi medievali dei traghetti, genti da tutto l’Impero migrano verso l’isola, paradiso galleggiante che rischiano di affondare non tanto col loro peso quanto col sacrosanto appetito: improvvisamente, da giugno a settembre, l’isola deve sfamare 15 milioni di villici anziché 1,5. Lo fa ricorrendo al tipico sistema dell’importazione di “prodotti tipici”, non per cattiveria (a volte si, però) ma per necessità.
Secondo gli esperti il problema non sta tanto nell’offerta, ma anche – e soprattutto – nella domanda. Mangiar sano, introdurre nel proprio corpicino cibo genuino, interessa solo a una parte della popolazione. Agli altri non importa troppo, come dimostra l’affollamento degli ipermercati. Il problema lo hanno quelli che considerano le merendine un’arma di sterminio di massa e che vagano alla ricerca di agricoltori che non avvelenano i propri campi, allevatori che non applicano agli animali metodi da Guantanamo e prodotti che non abbiano passato infanzia e adolescenza in cyber frigoriferi.
Ammettiamolo: questi, oggi, ci stanno più a cuore. Il loro numero è in crescita esponenziale, lo dicono le statistiche. Perseguitati come paleocristiani dalle pubblicità e dall’odio dei neocon (sta anche per neoconsumatori) brancolano alla ricerca dei pochi produttori che non infestano i propri terreni di diserbanti e pesticidi, dei pochi allevatori – in Gallura ce ne sono ancora – che tengono i bovini allo stato brado – delle ultime bottiglie di vino fatto in casa.
Preparare un manicaretto al modo tradizionale sardo con ingredienti “importati” non è certo un delitto. Può essere un fatto economico (i prodotti genuini locali sono più costosi dei prodotti industriali e della grande distribuzione) oppure perché l’isola non produce abbastanza di quell’ingrediente, il perché lo abbiamo già detto prima. Però, che buono il miele fatto in Sardegna: un serissimo e certificassimo produttore Bio dell’Alto Adige ci racconta che deve coltivare in serra anche le piante che crescerebbero all’aperto, perché le piogge non sono abbastanza pulite da non inquinare il prodotto, che non sarebbe quindi veramente biologico. Sull’isola, lontana dalla terraferma e battuta dal maestrale, il problema è sconosciuto. I pollini che le api bazzicano sono puliti come da poche altre parti. Il terreno, vergine dal punto di vista dell’inquinamento da industria, alimenta piante fiori con il meglio che un apicultore possa desiderare. E anche noi consumatori.
Approfittare delle vacanze per rivedere un po’ le abitudini alimentari non è sbagliato. C’è finalmente il tempo per ripensare il proprio atteggiamento come consumatore e amico del proprio fegato. Alla fine non c’è da far altro che quello che ormai tutti dicono: mangiare (molta) meno carne, evitare i cibi a troppo lunga conservazione, selezionare le aziende produttrici “virtuose”.
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, dice: “Ho bisogno di conoscere la storia di un alimento. Devo sapere da dove viene. Devo immaginarmi le mani che hanno coltivato, lavorato e cotto ciò che mangio”. Le vacanze in Sardegna non sono solo ombrellone e creme da sole, c’è un’ottima occasione da cogliere: andare in giro, assaggiare le squisite materie prime prodotte nell’isola e riallacciare un giusto legame con il cibo e i sapori.
Buone vacanze, allora.