Gli storici dell’architettura storcono spesso il naso di fronte al termine “stile” seguito da un qualsiasi aggettivo. Lo fanno per amor di precisione, perché ritengono che la complessità di un’opera costruita non possa essere ridotta alle sue caratteristiche visibili. Lo fanno anche per un accenno di moralismo, perché rivendicano che la sostanza deve valere più dell’apparenza, e che si deve parlare dell’arrosto molto più e molto prima che del fumo. Così, una parola tutto sommato comune nella lingua corrente affiora solo in testi e pubblicazioni che si vogliono più accessibili, godibili, grand public (come Coast Magazine, ndr).
“Lo stile Costa Smeralda”, ad esempio, è il titolo di un capitolo del volume del 1999 Case di Sardegna. Ville esclusive della Costa Smeralda, curato da Giuliana Bianchi, autrice, e Giancarlo Gardin, fotografo. Bianchi e Gardin si concentrano soprattutto sull’interior design, sull’arredo e al limite su qualche dettaglio architettonico: parlano di ceramiche e tessuti, cucine e cancellate, pavimenti e soffitti. Il loro spunto, però, si presta bene ad essere ripreso alla scala più ampia degli edifici e dell’intero paesaggio della costa.
Agli albori degli anni ’60, quando fu creato il consorzio, l’Aga Khan e i suoi collaboratori – tra loro anche il fotografo Nello Di Salvo – studiarono a fondo la rigorosa architettura gallurese dello stazzo, funzionale nei suoi spazi e sussurrata nel suo linguaggio. Ma la fascinazione per le morfologie del paesaggio gallurese e all’insofferenza verso i dogmi dell’architettura moderna di autori come Michele Busiri Vici, Jacques e Savin Couelle e Luigi Vietti si tradusse in un alto livello di sperimentazione formale. Lavorando per e intorno all’Aga Khan, questi e altri architetti inventarono uno stile, balneare e mediterraneo, curvilineo e neo-vernacolare, molto diverso da quello delle dense riviere del nord ma anche dagli insediamenti turistici che sorgevano contemporaneamente nel resto del Mezzogiorno. Resta da scrivere uno studio approfondito di questo stile, che lo decostruisca nei suoi tratti e nelle sue componenti fondamentali.
Si potrebbe parlare, ad esempio, del rifiuto dell’angolo retto, vissuto forse come un peccato dell’iper-funzionalismo, che vuole che ogni metro quadro sia sfruttabile e adibito a una funzione precisa. La stondatura rappresenterebbe, al contrario, la possibilità della dépense, di un surplus puramente edonista. Si potrebbero approfondire, poi, gli echi che si stabiliscono tra architettura e paesaggio, legati non da una semplice mimesi ma dalla volontà della prima di ereditare e amplificare le caratteristiche del secondo. Le fotografie aeree e le panoramiche ad altezza d’uomo della costa da Porto Cervo a Porto Rafael restituiscono l’immagine di un litorale solcato da curve naturali e artificiali, queste ultime talvolta così enfatiche da sconfinare nel fitomorfo e nel fiabesco.
Si dovrebbe riflettere, inoltre, sugli stilemi del domestico smeraldino, di case di vacanza che sembrano ispirarsi a concezioni universali, e non locali, della tradizione e della mediterraneità. Quelle della Costa sono “supercase” archetipe che si mostrano – con i loro comignoli, i loro tetti leggermente pendenti, le loro porte e finestre magari panoramiche ma mai troppo ampie – come rassicuranti spazi del focolare, pronti ad accogliere villeggianti spaesati dalla lontananza dalla loro residenza principale. Infine sarebbe utile produrre un registro dei materiali e delle finiture di un’architettura sempre ruvida, concettualmente e praticamente, e nature-based, per utilizzare un termine contemporaneo. Muri in pietra a secco, intonaci in argilla a grana grossa, travi a vista e incannucciati, dettagli ceramici e metallici: si può percepire lo stile della Costa con gli occhi, verificando i suoi tanti e variegati chiaroscuri, ma anche con le mani, sfiorandone le diverse consistenze.
Quello descritto qui non fu l’unico stile della Costa Smeralda™ degli inizi ma, almeno in una prima fase, s’impose quantitativamente e finì per identificare l’intera operazione, a discapito di altre ricerche – ad esempio quella più lineare di Gianni Gamondi. Risuonò, inoltre, con lo stile di altri luoghi della villeggiatura dell’epoca – il Port-la-Galère dello stesso Couelle o il Port-Grimaud di François Spoerry, guardando alla sola Costa Azzurra – ma solo in Costa Smeralda™ si fece identità e immagine coordinata di un territorio così ampio. Un caso unico in Italia e in tutta Europa.
“Lo stile della Costa Smeralda è uno stile vivo, non ci sono delle vere regole ma una serie di accorgimenti, un mondo da prendere ad esempio e da imitare”: quanto di queste e altre simili considerazioni di Bianchi sono ancora valide a quasi cinque lustri di distanza dalla loro formulazione? Negli ultimi anni, una nuova genealogia di architetture più stereometriche e astratte, più lucide e più trasparenti, ha popolarizzato poco a poco su questo tratto di costa forme, estetiche e materiali finora inediti.
Che si tratti di un imperdonabile “tradimento” del suo stile, o piuttosto di una sua positiva evoluzione verso nuove configurazioni, una cosa sembra certa: un osservatore attento che visiterà la Costa tra un paio di decenni potrà elaborare un catalogo ben diverso da quello ormai “storico” che abbiamo provato ad abbozzare in queste poche righe.